I concerti da camera dei Virtuosi Italiani con SOOJUNG DIANA KIM

Concerto fuori abbonamento

Info Spettacolo

domenica, 28 Aprile 2024 H 17:00
Spazio S. Pietro in Monastero

Programma evento

Ludwig van Beethoven
Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in do minore, op. 37 (1770 – 1827)
(versione per pianoforte e quintetto d’archi di V. Lachner)
Allegro con brio – Largo – Rondò. Allegro

L’episodio è conosciuto. Nel 1804, in un grande ricevimento a Vienna, la nobile padrona di casa aveva assegnato a Beethoven il posto in mezzo a gente di poco riguardo e Beethoven se ne era andato senza sedersi, senza neppure congedarsi. Quella sera era presente il principe Luigi Ferdinando di Prussia (nipote di Federico II), gentiluomo squisito, eccellente pianista, ammiratore e amico di Beethoven, ed egli volle riparare presto l’offesa. Qualche giorno dopo invitò alla sua tavola Beethoven e l’incauta dama mettendo l’uno alla sua destra e l’altra a sinistra. Quando nell’autunno di quell’anno il Concerto op. 37 fu pubblicato da Breitkopf und Hartel (ma era stato composto prima ed era già stato eseguito nel 1803), esso uscì con la dedica «A Son Allesse Royale Monseigneur le Prince Louis Ferdinand de Prusse», quasi una risposta di considerazione e di stima che Beethoven dava al suo amico principe, alla pari.

Beethoven era certo che i rapporti di un artista con gli aristocratici dovevano essere facili, bastava avere «le capacità di imporsi», come diceva lui. Negli enormi rivolgimenti della storia europea recente, Beethoven stava attuando la sua rivoluzione. Al principio dell’Ottocento il vecchio Haydn, vivo ancora e universalmente venerato, non si era “imposto”, il giovane Beethoven sì, quasi da subito, diciamo dal 1795 (l’anno dei tre Trii op. I: Beethoven era a Vienna dal 1792), e così aveva contribuito da protagonista a cambiare la forma di relazioni tra nobili mecenati e artisti. Il fiero sentimento che egli aveva di sé, della posizione sociale dell’artista e della funzione dell’arte fu, certo, una delle spinte potenti alle novità espressive tipiche del suo cosiddetto “secondo stile” (1800-1815), lo stile, cioè, dei capolavori popolari, per i quali da allora Beethoven è Beethoven – un carattere che in sostanza nasceva dalla tenace passione delle ambizioni ideali, dalle aspirazioni umanitarie fino ad allora ignote alla musica, ma anche dalla fedeltà dell’artista ai suoi propositi etici e, dunque, dalla volontà di realizzarli in un’invenzione musicale sempre tesa al massimo dell’energia e del significato, sfidando il pericolo dell’eccesso. Per un’arte di tanta originalità e forza in continuo svolgimento, le divisioni in periodi di stile servono a poco più che un orientamento pratico, eppure può far comodo additarne qualche punto di svolta. E non si tradisce la verità vedendo negli stupendi 6 Quartetti op. 18 (1798-1800) la conclusione del “primo stile” e in questo Concerto op. 37 quasi contemporaneo (1800-1802) l’avvio del “secondo”. Beethoven stesso già all’inizio del 1801 giudicava con distacco qualche suo lavoro precedente, per esempio proprio i primi due Concerti per pianoforte: «Hofmeister pubblica qui uno dei miei primi Concerti [l’op. 19], quindi non una delle mie opere migliori, e Mollo a Lipsia un Concerto posteriore [l’op. 15], però neppure esso è ancora da considerarsi tra le mie opere migliori.» (lettera a Breitkopf und Hartel, 22 aprile 1801).

Per la sua posizione intermedia il Concerto op. 37 non ha sempre la vitalità innovativa e la solida coerenza di altre opere create in quel breve giro di anni (per esempio, le Sonate per pianoforte op. 27 e 28 e soprattutto la Terza Sinfonia), ma basterebbe da solo il secondo movimento ad assicurargli la fama che ha. Dopo diversi e laboriosi ripensamenti (quasi tutti documentati) il Concerto fu concluso nel 1802, ed ebbe la prima esecuzione, molto accidentata ma alla fine accolta bene, il 3 aprile 1803 al Theater an der Wien (solista Beethoven stesso, che leggeva direttamente dal suo confuso manoscritto per la disperazione del direttore del teatro, il cavaliere Ignaz von Seyfried, che voltava le pagine).

Il primo movimento entra subito nella vicenda con il primo tema marziale, volitivo e un po’ enfaticamente solenne nella sua asciuttezza (la somiglianza con l’inizio del Concerto K, 491 di Mozart non gli giova). Inventato con le tre note dell’accordo perfetto di do minore, è uno dei temi sinfonici evidenti e sintetici che l’ascoltatore ripete tra sé dopo un concerto. Ricordiamo che nel sinfonismo un ‘tema’ si forma per lo più con due caratteri, uno melodico e l’altro ritmico, che nella continuità del motivo possono essere coesistenti o distinti. L’elaborazione sinfonica sta appunto nel lavoro di trasformazione e sviluppo dei temi prima di tutto nei loro aspetti melodici e ritmici.

Il primo tema di questo Concerto, e soprattutto il suo rigido ‘epilogo’ ritmico (sol/do, sol/do), passano con intensità diversa da un settore all’altro degli strumenti per essere poi riesposti con un ‘tutti’ dell’orchestra, in un luminoso mi bemolle maggiore. Sorpresa tipicamente beethoveniana, la natura affermativa del tema già accentuata nell’iniziale presentazione in ‘minore’ suona ora molto più decisa. Qui abbiamo la transizione al secondo tema sempre in mi bemolle maggiore (violini primi e clarinetti), cantabile di grande bellezza, che si espande in un breve dialogo di proposte e risposte tra gli archi e i fiati ed entra poi in un agitato sistema di confronti con il primo tema, il cui ‘epilogo’ ritorna insistentemente anche come segmento tematico autonomo. Il pianoforte entra con effetto di protagonista, riaffermando con una certa foga esteriore la tonalità di do minore in tre scale ascendenti scandendo poi vigorosamente il primo tema. Si inizia il dialogo tra il solista e l’orchestra, ben serrato nella sezione dello ‘sviluppo’, con modulazioni ardite nelle quali il secco disegno iniziale (anche contratto negli intervalli, ma non nel ritmo) torna con ossessiva insistenza in funzione di guida della dialettica tra il pianoforte e gli strumenti e tra i temi. Questa cellula tematica scandita in quattro note, e anche condensata in due, perentoria o inquieta, esplicita o celata, caratterizza quasi ogni momento del primo tempo. Addirittura essa compare da sola e in ‘pianissimo’ nei timpani, quasi privata di natura sonora, sotto gli arpeggi del pianoforte dopo che questo ha concluso la sua enorme cadenza. La geniale bizzarria strumentale è l’ultima e più significativa traccia dell’agitazione che ha percorso il primo tempo e che l’eloquente ‘coda’ disperde.

Il Largo è, come ho detto, la pagina preziosa del Concerto. Si direbbe che Beethoven abbia scelto la tonalità di mi maggiore, in tutto estranea al do minore del primo tempo, per isolare sin dal primo accordo il sentimento di questo Largo. La forma generale è quella del Lied in tre sezioni, ma l’alta libertà emotiva non consente alcuna costrizione formale, l’ispirazione è piuttosto quella dell”improvvisazione’. Nel silenzio dell’orchestra il solista inizia la melodia che ha la calma riflessiva di un ‘notturno’. A noi, attenti e stupiti, sembra che il pianista trovi le sue note per la prima volta. Quando l’orchestra risponde (archi con sordina), si espande nella quiete una luce delicata. Nulla turba o confonde la disposizione poetica alla fantasticheria e al sogno. In diversi momenti la musica rinuncia a una fisionomia melodica per espandersi mirabilmente in echi, brividi, sospiri, coni mosse esaltazioni (gli arpeggi del pianoforte), dunque in pura liricità astratta. Perfino la cadenza finale deve avere un suo estatico, sorridente pudore. Mirabile la serena semplicità delle quattro battute finali: percorrendo a eco le tre note dell’accordo di mi maggiore (si, sol diesis, mi) il pianoforte, un flauto, due corni scendono verso il buio e il silenzio. L’ultimo accordo secco (tutti dell’orchestra senza pianoforte) è un congedo antisentimentale, dissipa l’incanto e prepara la transizione al Rondò. Che si inizia molto felicemente con uno scatto agile (corta ascesa di semitono e ampia discesa di settima) del pianoforte, che continua esponendo il tema principale destinato a tornare nelle ripetizioni tipiche del Rondò. A noi suona come la musicale trasfigurazione di un gesto di danza o di una civetteria mondana, consueta negli ‘Allegri’ di Haydn e di Mozart (ma qui non c’è traccia di intonazione popolare così frequente nei due grandi) e poco familiare al Beethoven sinfonico. Tuttavia l’impianto tonale in ‘minore’ celatamente contraddice l’allegra eleganza del disegno, come se la tensione del primo tempo e la notturna malinconia del secondo non si fossero ancora del tutto dileguate – un esempio della complessità nei pensieri e negli affetti di Beethoven nella sua maturità creativa. Ma da un certo momento entra nella musica un garbato umorismo con l’oboe che intona il motivo principale e con il fagotto che lo coglie e lo canticchia, mentre il pianoforte si distrae in arabeschi e poi fa loro da eco, quasi scherzando. Da lì con la progressiva affermazione del modo maggiore si espande una gustosa allegria che dopo l’ultima e breve cadenza del pianoforte quasi esplode nell’imprevedibile capogiro del 6/8 in do maggiore.

Felix Mendelssohn-Bartholdy
Quartetto per archi n. 6 in fa minore, op. 80 (MWV R 37) (1809 – 1847)
Allegro vivace assai – Allegro assai – Adagio – Finale. Allegro molto

Quando Robert Schumann, riferendosi all’ammirato collega Felix Mendelssohn, disse che «il caso l’aveva dotato fin dalla nascita di un giusto nome», non poteva certo prevedere che l’estremo anno di vita di quest’ultimo avrebbe dissipato in un soffio la forte predestinazione che un tale nome possiede. Fino al 1847, infatti, Mendelssohn condusse un’esistenza assai serena e sostanzialmente fortunata, costellata di continui successi e riconoscimenti per i suoi meriti artistici. Tale “quieta grandezza” è rintracciabile anche nelle sue composizioni: Mendelssohn certamente percepiva le inquietudini e gli slanci emotivi messi in risalto dal Romanticismo, ma egli fu in grado di filtrarli attraverso le strutture compositive del classicismo, restituendo, sotto forma di opere d’arte musicali, gli impeti e la passionalità in una veste più contenuta e compassata. Nelle sue composizioni Mendelssohn fu dunque in grado di “pacificare” le tensioni di ascendenza romantica con le forme e gli schemi compositivi di provenienza classicista, creando un organico equilibrio tra istanze assai diverse tra loro.

Non fu così per la composizione del Quartetto n. 6 in fa minore op. 80, scritto in memoria dell’amatissima sorella Fanny, scomparsa prematuramente nel maggio 1847. La perdita della sorella, alla quale Felix era legato da un vincolo spirituale ed emotivo fortissimo, fu un colpo davvero difficile da sostenere per il già provato compositore (assai affaticato da viaggi estenuanti e da continue esibizioni) che morì nel novembre dello stesso anno, lasciando questa estrema pagina musicale a testimonianza del suo lacerante dolore. Un dolore che non viene mai allentato o nascosto in tutta l’opera, che si fa invece esplicita espressione di un impeto creativo del tutto nuovo e insolito per Mendelssohn. Già la tonalità d’impianto evoca un senso di profonda inquietudine, manifestata fin dall’iniziale Allegro vivace assai aperto da tremoli concitati che danno avvio a un primo tema irrequieto e tormentato, a cui ne segue uno più disteso e pacato: le due idee motiviche principali si alternano nello sviluppo, alla ricerca di un equilibrio tra pianto disperato e momentanea accettazione; quest’ultima verrà tuttavia sopraffatta nella coda da una drammatica stretta conclusiva in cui le note più acute del violino primo evocano espressivamente uno straziante grido di rabbia. Il secondo movimento (Allegro assai) è uno Scherzo dal carattere non dissimile: esso è pervaso da un senso di affanno, reso dall’ampio uso della sincope, e di irrequietezza, evocato da un cromatismo che anticipa quello di autori posteriori. Una sorta di basso ostinato caratterizza il Trio mediano, in cui l’atmosfera macabra della pagina si fa addirittura minacciosa, fino alla conclusione che si spegne in un diminuendo sempre più impercettibile. L’Adagio è una malinconica elegia, il cui mesto canto (suddiviso in due temi dal carattere lirico e raccolto) è affidato alternativamente alle voci dei quattro strumenti, fino a un comune e rassegnato sospiro finale. La momentanea concessione alla tenerezza viene spezzata dall’ansiogeno attacco del Finale (Allegro molto), dominato da tremoli, sincopi, improvvisi mutamenti di dinamica, sonorità dissonanti e cromatismi che confermano il profondo tormento dell’anima dell’autore, che esprime in note la sua prostrazione e la sua incapacità a reagire di fronte a un evento del tutto imprevedibile e incomprensibile.

Artisti e Compagnia

I Virtuosi Italiani

SOOJUNG DIANA KIM, pianoforte

Vincenzo Bolognese, Alberto Martini violini

Giancarlo Di Vacri viola

Giuseppe Barutti violoncello

Vieri Giovenzana contrabbasso

SOO JUNG KIM
Lodata come "un suono riccamente vario, un'interpretazione vivace e un'esecuzione avvincente", la pianista Soo Jung Kim porta sui palcoscenici uno stile colorato ed un'energia magnetica sia come camerista sia in qualità di solista.

Kim è stata la vincitrice Concorso internazionale per giovani artisti del 2016 ed ha ricevuto la migliore interpretazione di Ballade di Li-ly Chang, che ha registrato in un CD, trasmesso su WQXR nel Maryland. Ha partecipato anche al Concorso internazionale George Enescu, al Concorso pianistico Teresa Carreño, al Concorso pianistico internazionale Walled City Music, al Concorso internazionale di Hong Kong e al Concorso pianistico internazionale di Seattle.

Dopo il suo debutto alla Weill Recital Hall della Carnegie Hall nel giugno 2022, SooJung si è esibita in luoghi prestigiosi come Steinway Hall, Ward Recital Hall, Merkin Hall, Studzinski Recital Hall, Dekelboum Concert Hall, Miriam A. Friedberg Concert Hall, LeClerc Hall , il John F. Kennedy Center for the Performing Arts, il Seoul Arts Center, la Yongsan Arts Hall, il Sejong Center for the Performing Arts, la Kumho Art Hall a Yonsei e il Korea Times Arts Center.

Kim si è diplomata alla Yewon Arts School e alla Seoul Arts High School con il sostegno della città di Seoul nel 2005-2008. Si è trasferita negli Stati Uniti per conseguire una laurea, un master in musica e un diploma di specializzazione presso il Conservatorio Peabody della Johns Hopkins University con Benjamin Pasternack e Yong Hi Moon. Ha ricevuto i fondi Leon Fleisher Scholars, la borsa di studio Catherine Laura Stevens Mehr Memorial e la borsa di studio Oh Bang Young Memorial della Korea-American Scholarship Foundation. oltre al suo secondo e terzo master di pianoforte vocale collaborativo e pedagogia della teoria musicale presso Peabody.

Kim ha conseguito un dottorato in arti specializzandosi in esecuzione pianistica con un assistente universitario presso l'Università del Maryland sotto la guida della Prof.ssa Rita Sloan. Recentemente residente in Corea del Sud, ha iniziato a lavorare alla Kaywon and Incheon Arts High School come insegnante di musica. Kim sta lavorando ad un progetto su Clara Schumann e sta progettando di eseguire e realizzare un CD con tutte le sue composizioni. Ringrazia enormemente il Prof. Meehyun Ahn per l'ispirazione musicale e il sostegno della sua famiglia.

Info e Biglietteria

BIGLIETTERIA 

Verona, Piazzetta Ottolini n. 9
Lunedì, Martedì e Mercoledì dalle 15.30 alle 18.00
Giovedì dalle 10.30 alle 13.00

oppure su prenotazione:
Mobile, WhatsApp, Telegram
+39 392 7178741  / +39 045 8006411
[email protected] 

presso il Teatro Ristori o San Pietro in Monastero
dalle 18.30 nei concerti serali
dalle 15.30 nei concerti pomeridiani

L’organizzazione e la vendita dei biglietti è gestita direttamente da I Virtuosi Italiani Impresa Sociale S.r.l.

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Dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 19.00
Sabato dalle 9.30 alle 12.30

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