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25Apr20:30I concerti da camera dei Virtuosi Italiani20:30 via Garibaldi 3, VeronaACQUISTA ONLINE
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Ludwig van Beethoven Quartetto per archi in do minore n. 4 Op. 18 n. 4 Johannes Brahms Sestetto per archi nr. 2 in Sol maggiore op. 36 Il Quarto
Dettagli
Ludwig van Beethoven
Quartetto per archi in do minore n. 4 Op. 18 n. 4
Johannes Brahms
Sestetto per archi nr. 2 in Sol maggiore op. 36
Il Quarto Quartetto è impostato nella tonalità di do minore che, secondo una interpretazione retorica, viene riservata da Beethoven all’esposizione di conflitti drammatici. Probabilmente proprio la patina patetica ha guadagnato al Quartetto una netta celebrità all’interno del gruppo dell’op. 18; nonostante questo, la tecnica di scrittura, che mette in netto risalto il primo violino, è fra le meno “progressive” di tutta la silloge. L’Allegro non tanto iniziale si svolge secondo quella dialettica di contrasti in cui si può riflettere quel conflitto di princìpi («implorante» e «di opposizione») teorizzato dall’autore. Così il primo tema si delinea affannoso, mentre il secondo, in maggiore, si contrappone a quello, e forti contrasti sono anche nello sviluppo, mentre la ripresa mantiene il secondo tema nel modo maggiore.
Il Quartetto è poi privo di un movimento lento, e fa succedere, in seconda e terza posizione, uno Scherzo e un Minuetto. Lo Scherzo è brillantissimo, e si avvale di intrecci polifonici aerei e finissimi, con un fraseggio quasi costantemente in pianissimo e staccato. Il Menuetto, al contrario, si impegna in una densità patetica, accentuata dai cromatismi e non contraddetta nemmeno dal Trio, nonostante la sua lievità.
Con il finale torniamo al gioco delle antitesi; si tratta di un rondò guidato da un refrain di sapore vagamente zigano che si alterna con episodi nettamente contrastanti; ma tali contrasti non mirano qui al patetismo bensì ad acuire l’ironia del tema “esotico”, secondo una prassi haydniana poi poco frequente nell’opera quartettistica beethoveniana, che, dopo una pausa di maturazione, si volgerà nel 1805 verso i traguardi ambiziosi e personalissimi dei tre Quartetti op. 59.
«Ogni volta che viene annunciato il novello san Giovanni Battista, Johannes Brahms, siamo colti immancabilmente dall’identico stato di prostrazione. Questo profeta, che è stato annunciato da Robert Schumann nelle sue ore più cupe e che (va detto per amore di verità) ha fervidi ammiratori anche a Vienna, ci riempie di desolazione con la sua musica d’una noia subdola e vertiginosa, una musica che non ha corpo né anima e che è il frutto d’uno sforzo senza speranza. Ciò che caratterizza questo signore è un artificio evidente e clamoroso»: così il critico della «Wiener Zeitung» accolse la prima esecuzione europea del Sestetto n. 2 in sol maggiore op. 36 di Brahms, avvenuta a Vienna il 3 febbraio 1867 (c’era già stata una prima esecuzione negli Usa, nell’ottobre dell’anno precedente). Prescindendo dalla cattiva fede e dalla partigianeria del critico, che era palesemente un fanatico adepto di Wagner e della “musica dell’avvenire”, questa recensione dimostra che i nemici di Brahms erano sempre pronti a ritorcergli contro l’entusiastico e profetico articolo con cui Schumann l’aveva presentato al mondo, nell’ormai lontano 1853. Allora si capisce che, nonostante il tempo trascorso, Brahms si sentisse ancora oppresso dalla responsabilità che Schumann gli aveva accollato forse prematuramente. Questo spiega perché abbia compiuto un percorso obliquo e titubante per arrivare a scrivere la sua prima sinfonia: sentiva che aveva tutti gli occhi puntati su di lui, pronti a confrontarlo con i suoi grandi predecessori in questo campo.
Simili esitazioni e timori segnarono gli approcci di Brahms anche a un’altra prestigiosa forma della musica strumentale, il quartetto per archi. Già nel 1853 si era presentato a Schumann con un quartetto, ma poi l’aveva fatto sparire, per attendere altri vent’anni prima di trovare l’ardire di presentarsi al pubblico con un lavoro di tal genere. Nel frattempo aveva fatto i suoi primi passi nel campo della musica da camera per soli strumenti ad arco con i due Sestetti op. 18 e op. 36, che, appartenendo a un genere pressoché nuovo, non l’intimidivano col timore di confronti difficili da reggere e soprattutto non gli ponevano in modo lacerante il paralizzante dilemma tra l’ammirazione reverenziale per i grandi autori classici, che lo spingeva a prenderli come propri modelli ideali, e la chiara consapevolezza della loro irripetibilità, che frustrava ogni illusione di poterne ricalcare le orme. C’erano anche ragioni più pratiche a indirizzarlo verso il sestetto: si può infatti osservare che questo gruppo strumentale si avvicinava più del quartetto allo spessore sonoro consentito dal pianoforte e che Brahms negli anni giovanili preferiva sempre filtrare le proprie idee attraverso la mediazione dello strumento da lui perfettamente padroneggiato e praticato quotidianamente.
Brahms riesce ad evitare il rischio di monocromia insito in questa formazione aggregando i sei strumenti in tutte le combinazioni possibili: tre gruppi di due strumenti o due gruppi di tre strumenti che si oppongono o si aggregano, raddoppi del violino col violoncello, effetti di spessore e pastosità quasi orchestrali, passaggi contrappuntistici a sei parti reali (queste raffinatezze polifoniche furono probabilmente una causa dell’insuccesso iniziale del Sestetto, perché talvolta sono veramente troppo fitte e complesse per essere pienamente afferrate al primo ascolto).
A lungo questo Sestetto è stato chiamato coi titoli apocrifi di “Sestetto degli addii” o di “Sestetto di Agathe”, collegati a un episodio della biografia di Brahms, il legame con Agathe von Siebold, l’affascinante figlia d’un professore universitario di Gottinga. Nel 1859, quando si profilava un possibile matrimonio, il compositore aveva bruscamente troncato la relazione, per la riluttanza ad assumersi le responsabilità d’un vincolo matrimoniale: «Vi amo! Ma non posso portare delle catene!». Dovette però continuare ad amare segretamente Agathe ancora a lungo, poiché parlando agli amici di questo Sestetto (composto tra il 1864 e il 1865) esclamò: «È qui che mi sono liberato del mio ultimo amore!». Ma questa vicenda sentimentale è ininfluente alla comprensione del Sestetto, perché Brahms fu sempre fieramente contrario a contaminare la purezza della musica con riferimenti a fatti esterni.
Il primo movimento, Allegro non troppo, è in una classica forma-sonata, ampia e magnificamente equilibrata. Il suo tono è essenzialmente lirico, a cominciare dal tema iniziale, tenero, dolce ed elegiaco, con un colore agreste, esposto dal primo violino sulla pulsazione di due note costantemente ripetute dalla prima viola, come un lento trillo che prosegue per un ampio tratto del movimento, passando anche ad altri strumenti. Solo dopo quasi cento battute viene introdotto dal primo violoncello il secondo tema, una frase cantabile, lirica ma robusta. Poco più in là compare un motivo accessorio, accesamente lirico, che si collega direttamente al nome di Agathe. Lo sviluppo è relativamente breve, perché Brahms ha già ampiamente sfruttato e rielaborato i vari temi subito dopo la loro presentazione: bisogna però segnalare il complesso lavorio contrappuntistico basato sul primo tema. La ripetizione quasi letterale dell’ampia prima parte conduce a una coda, che conclude brillantemente il movimento.
Lo Scherzo (Allegro non troppo) ha in realtà ben poco dello scherzo tradizionale: è piuttosto un intermezzo, in tonalità minore, di un andamento moderato e di carattere più melodico che ritmico. Lo slancio tipico di questo genere di movimenti ricompare nell’episodio centrale, un Trio in tempo Presto giocoso, che unisce a un andamento da valzer rustico un’insolita ricchezza contrappuntistica.
Il Poco adagio si sviluppa a partire da un tema malinconico e sognante, di grande bellezza espressiva, cantato dal primo violino sull’accompagnamento del secondo violino e della prima viola. Segue una serie di variazioni (o piuttosto libere trasformazioni), in cui il tema di volta in volta è affidato al violoncello in pizzicato, è trattato in terzine di crome, assume un carattere energico e quasi marziale, appare nella forma inversa. La confidenza e la maestria di Brahms nella variazione traspaiono chiaramente dalla disinvoltura e dalla libertà con cui fa valere la propria abilità tecnica e inventiva.
Il finale, Poco allegro, è in forma-sonata, ma il vivace e saltellante andamento ritmico dell’introduzione, il colore popolaresco dei due temi principali nonché la riduzione dello sviluppo a poche battute gli danno piuttosto il carattere semplice e brillante del rondò.
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Johannes Brahms
Sestetto per archi nr. 2 in Sol maggiore op. 36
Il Quarto Quartetto è impostato nella tonalità di do minore che, secondo una interpretazione retorica, viene riservata da Beethoven all’esposizione di conflitti drammatici. Probabilmente proprio la patina patetica ha guadagnato al Quartetto una netta celebrità all’interno del gruppo dell’op. 18; nonostante questo, la tecnica di scrittura, che mette in netto risalto il primo violino, è fra le meno “progressive” di tutta la silloge. L’Allegro non tanto iniziale si svolge secondo quella dialettica di contrasti in cui si può riflettere quel conflitto di princìpi («implorante» e «di opposizione») teorizzato dall’autore. Così il primo tema si delinea affannoso, mentre il secondo, in maggiore, si contrappone a quello, e forti contrasti sono anche nello sviluppo, mentre la ripresa mantiene il secondo tema nel modo maggiore.
Il Quartetto è poi privo di un movimento lento, e fa succedere, in seconda e terza posizione, uno Scherzo e un Minuetto. Lo Scherzo è brillantissimo, e si avvale di intrecci polifonici aerei e finissimi, con un fraseggio quasi costantemente in pianissimo e staccato. Il Menuetto, al contrario, si impegna in una densità patetica, accentuata dai cromatismi e non contraddetta nemmeno dal Trio, nonostante la sua lievità.
Con il finale torniamo al gioco delle antitesi; si tratta di un rondò guidato da un refrain di sapore vagamente zigano che si alterna con episodi nettamente contrastanti; ma tali contrasti non mirano qui al patetismo bensì ad acuire l’ironia del tema “esotico”, secondo una prassi haydniana poi poco frequente nell’opera quartettistica beethoveniana, che, dopo una pausa di maturazione, si volgerà nel 1805 verso i traguardi ambiziosi e personalissimi dei tre Quartetti op. 59.
«Ogni volta che viene annunciato il novello san Giovanni Battista, Johannes Brahms, siamo colti immancabilmente dall’identico stato di prostrazione. Questo profeta, che è stato annunciato da Robert Schumann nelle sue ore più cupe e che (va detto per amore di verità) ha fervidi ammiratori anche a Vienna, ci riempie di desolazione con la sua musica d’una noia subdola e vertiginosa, una musica che non ha corpo né anima e che è il frutto d’uno sforzo senza speranza. Ciò che caratterizza questo signore è un artificio evidente e clamoroso»: così il critico della «Wiener Zeitung» accolse la prima esecuzione europea del Sestetto n. 2 in sol maggiore op. 36 di Brahms, avvenuta a Vienna il 3 febbraio 1867 (c’era già stata una prima esecuzione negli Usa, nell’ottobre dell’anno precedente). Prescindendo dalla cattiva fede e dalla partigianeria del critico, che era palesemente un fanatico adepto di Wagner e della “musica dell’avvenire”, questa recensione dimostra che i nemici di Brahms erano sempre pronti a ritorcergli contro l’entusiastico e profetico articolo con cui Schumann l’aveva presentato al mondo, nell’ormai lontano 1853. Allora si capisce che, nonostante il tempo trascorso, Brahms si sentisse ancora oppresso dalla responsabilità che Schumann gli aveva accollato forse prematuramente. Questo spiega perché abbia compiuto un percorso obliquo e titubante per arrivare a scrivere la sua prima sinfonia: sentiva che aveva tutti gli occhi puntati su di lui, pronti a confrontarlo con i suoi grandi predecessori in questo campo.
Simili esitazioni e timori segnarono gli approcci di Brahms anche a un’altra prestigiosa forma della musica strumentale, il quartetto per archi. Già nel 1853 si era presentato a Schumann con un quartetto, ma poi l’aveva fatto sparire, per attendere altri vent’anni prima di trovare l’ardire di presentarsi al pubblico con un lavoro di tal genere. Nel frattempo aveva fatto i suoi primi passi nel campo della musica da camera per soli strumenti ad arco con i due Sestetti op. 18 e op. 36, che, appartenendo a un genere pressoché nuovo, non l’intimidivano col timore di confronti difficili da reggere e soprattutto non gli ponevano in modo lacerante il paralizzante dilemma tra l’ammirazione reverenziale per i grandi autori classici, che lo spingeva a prenderli come propri modelli ideali, e la chiara consapevolezza della loro irripetibilità, che frustrava ogni illusione di poterne ricalcare le orme. C’erano anche ragioni più pratiche a indirizzarlo verso il sestetto: si può infatti osservare che questo gruppo strumentale si avvicinava più del quartetto allo spessore sonoro consentito dal pianoforte e che Brahms negli anni giovanili preferiva sempre filtrare le proprie idee attraverso la mediazione dello strumento da lui perfettamente padroneggiato e praticato quotidianamente.
Brahms riesce ad evitare il rischio di monocromia insito in questa formazione aggregando i sei strumenti in tutte le combinazioni possibili: tre gruppi di due strumenti o due gruppi di tre strumenti che si oppongono o si aggregano, raddoppi del violino col violoncello, effetti di spessore e pastosità quasi orchestrali, passaggi contrappuntistici a sei parti reali (queste raffinatezze polifoniche furono probabilmente una causa dell’insuccesso iniziale del Sestetto, perché talvolta sono veramente troppo fitte e complesse per essere pienamente afferrate al primo ascolto).
A lungo questo Sestetto è stato chiamato coi titoli apocrifi di “Sestetto degli addii” o di “Sestetto di Agathe”, collegati a un episodio della biografia di Brahms, il legame con Agathe von Siebold, l’affascinante figlia d’un professore universitario di Gottinga. Nel 1859, quando si profilava un possibile matrimonio, il compositore aveva bruscamente troncato la relazione, per la riluttanza ad assumersi le responsabilità d’un vincolo matrimoniale: «Vi amo! Ma non posso portare delle catene!». Dovette però continuare ad amare segretamente Agathe ancora a lungo, poiché parlando agli amici di questo Sestetto (composto tra il 1864 e il 1865) esclamò: «È qui che mi sono liberato del mio ultimo amore!». Ma questa vicenda sentimentale è ininfluente alla comprensione del Sestetto, perché Brahms fu sempre fieramente contrario a contaminare la purezza della musica con riferimenti a fatti esterni.
Il primo movimento, Allegro non troppo, è in una classica forma-sonata, ampia e magnificamente equilibrata. Il suo tono è essenzialmente lirico, a cominciare dal tema iniziale, tenero, dolce ed elegiaco, con un colore agreste, esposto dal primo violino sulla pulsazione di due note costantemente ripetute dalla prima viola, come un lento trillo che prosegue per un ampio tratto del movimento, passando anche ad altri strumenti. Solo dopo quasi cento battute viene introdotto dal primo violoncello il secondo tema, una frase cantabile, lirica ma robusta. Poco più in là compare un motivo accessorio, accesamente lirico, che si collega direttamente al nome di Agathe. Lo sviluppo è relativamente breve, perché Brahms ha già ampiamente sfruttato e rielaborato i vari temi subito dopo la loro presentazione: bisogna però segnalare il complesso lavorio contrappuntistico basato sul primo tema. La ripetizione quasi letterale dell’ampia prima parte conduce a una coda, che conclude brillantemente il movimento.
Lo Scherzo (Allegro non troppo) ha in realtà ben poco dello scherzo tradizionale: è piuttosto un intermezzo, in tonalità minore, di un andamento moderato e di carattere più melodico che ritmico. Lo slancio tipico di questo genere di movimenti ricompare nell’episodio centrale, un Trio in tempo Presto giocoso, che unisce a un andamento da valzer rustico un’insolita ricchezza contrappuntistica.
Il Poco adagio si sviluppa a partire da un tema malinconico e sognante, di grande bellezza espressiva, cantato dal primo violino sull’accompagnamento del secondo violino e della prima viola. Segue una serie di variazioni (o piuttosto libere trasformazioni), in cui il tema di volta in volta è affidato al violoncello in pizzicato, è trattato in terzine di crome, assume un carattere energico e quasi marziale, appare nella forma inversa. La confidenza e la maestria di Brahms nella variazione traspaiono chiaramente dalla disinvoltura e dalla libertà con cui fa valere la propria abilità tecnica e inventiva.
Il finale, Poco allegro, è in forma-sonata, ma il vivace e saltellante andamento ritmico dell’introduzione, il colore popolaresco dei due temi principali nonché la riduzione dello sviluppo a poche battute gli danno piuttosto il carattere semplice e brillante del rondò.
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Teatro Ristori
via Teatro Ristori,7 - Verona
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Un adagio di Mahler, Beethoven,Mozart, Rachmaninov, Bruckner, Bach e poi largo e adagietto… Quando danzo un adagio, il mio corpo si fonde ed il mio cuore
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Un adagio di Mahler, Beethoven,Mozart, Rachmaninov, Bruckner, Bach e poi largo e adagietto… Quando danzo un adagio, il mio corpo si fonde ed il mio cuore è sospeso nello spazio per dissolversi nel nulla.
Le parole lentamente evaporano e quando anche la realtà ed i pensieri spariscono, sento che sto vivendo la vita e la morte. Saburo Teshigawara
Con il supporto di: Agency for Cultural Affairs of Japan
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F. J. Haydn Trio per pianoforte, violino e violoncello in mi minore n.12 Op. 57, No. 2, Hob. XV:12 W. A. Mozart Trio per pianoforte, violino e violoncello in Sol maggiore
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F. J. Haydn
Trio per pianoforte, violino e violoncello in mi minore n.12 Op. 57, No. 2, Hob. XV:12
W. A. Mozart
Trio per pianoforte, violino e violoncello in Sol maggiore KV 564
A. Dvořák
Trio per pianoforte, violino e violoncello n. 4 in mi minore op. 90 “Dumky”
Fa piacere osservare come nei programmi dei concerti vengano riproposti con una certa frequenza, e certamente più di prima, i Trii per pianoforte, violino e violoncello di Haydn, che ammontano a trentuno, senza contare i Divertimenti da camera per violino, violoncello e cembalo obbligato e i pezzi per baryton, un vecchio tipo di viola da gamba, violino e violoncello. Si sa che la musicologia ha riservato maggiore attenzione alla produzione quartettistica (se ne contano 83) del “papà Haydn” per l’importanza che essa riveste per la formazione di un nuovo linguaggio polifonico destinato a pochi strumenti, ma non si può negare che anche i Trii, appartenenti alla piena maturità del musicista e composti fra il 1784 e il 1797, rivelano una immaginazione inventiva e un equilibrio formale degni della genialità di un artista che fu ritenuto a giusta ragione un caposcuola. Probabilmente quest’ultimo appellativo vale maggiormente per i quartetti d’archi che non per i Trii, dove Haydn mostrò di essere meno innovatore di Mozart, il quale cercò di disimpegnare il violoncello dagli schemi del basso continuo, affidandogli alle volte una parte più autonoma nel dialogo concertante con il pianoforte e il violino. Dal canto suo Haydn preferisce muovere all’unisono la voce del violoncello e il basso pianistico, a meno che lo strumento a tastiera non – prevarichi con le sue figurazioni melodiche. Ciò appare evidente nel Trio Hoboken XV n. 12 composto tra gli anni 1788-’89 e caratterizzato da una freschezza di invenzione melodica e da una estroversa e piacevole spontaneità musicale, secondo un gusto molto apprezzato dalla società viennese del tempo. L’Allegro moderato è costruito su due temi brillanti e ben legati in un gioco di eleganti sonorità con il pianoforte in un ruolo piuttosto in evidenza rispetto agli altri due strumenti. L’Andante rivela quella inconfondibile cantabilità e naturalezza armonica tanto apprezzate da Beethoven, il quale, come si sa, nutrì molta ammirazione per Haydn sinfonico e cameristico. Il Rondò conclusivo, definito semplicemente Finale nell’edizione londinese del Trio, si distingue per purezza di scrittura e gioiosità di sentimenti, in un pastoso e avvolgente dialogo a tre voci di immediata comunicativa.
Mozart scrisse otto Trii con il pianoforte: in sette di essi vi unì il violino e il violoncello, e precisamente in quello in si bemolle maggiore K. 254 del 1776, in quello in re minore K. 442 del 1783, in quelli in sol maggiore K. 496 e in si bemolle maggiore K. 502 del 1786, in quello in mi maggiore K. 542 e negli altri, in do maggiore K. 548 e in sol maggiore K. 564, recante in partitura la data del 27 ottobre 1788. Solo nel Trio in mi bemolle maggiore K. 498, che è del 1786, il pianoforte è accompagnato dal clarinetto e dalla viola; esso assunse il nome di “Kegelstatt-Trio” (Trio del gioco dei birilli), perché fu composto per gli amici Jaquin tra la chiassósa allegria di una partita a birilli.
Il Trio in sol maggiore è articolato in tre tempi caratterizzati da una freschezza inventiva e da una abilità nell’arte della variazione, specie nel secondo movimento. Il primo tema dell’Allegro iniziale viene esposto dal pianoforte e sorretto da un disegno melodico degli archi. Ecco quindi un tema più leggero e festoso, affidato al violino con un ritornello del pianoforte e poi ripreso dal primo strumento. A questo punto si snoda lo sviluppo del discorso musicale, condotto elegantemente dal violino su un accompagnamento di biscrome del pianoforte. C’è molta varietà nel gioco armonico, con il passaggio dalla tonalità di mi maggiore al do maggiore, secondo un procedimento spesso utilizzato da Mozart; al pianoforte e al violino si aggiunge con molta evidenza, nelle battute finali del movimento, la voce del violoncello.
L’Andante è un tema variato, punteggiato da una straordinaria purezza e nobiltà di espressione, che si richiama allo stesso Andante della Sonata per pianoforte e violino K. 547. Le variazioni sono sei: la prima è indicata dal violino su una imitazione del violoncello e con l’accompagnamento del pianoforte; la seconda è esposta dal violoncello, su ornamenti del violino e con accordi di accompagnamento del pianoforte; nella terza variazione il violino espone un tema cantabile, mentre il violoncello sottolinea le ultime cadenze; la quarta variazione contiene un magnifico dialogo tra il pianoforte e i due archi; la quinta variazione appartiene al pianoforte e la sesta è un tema molto arabescato, realizzato dal violino, su accompagnamento del violoncello e del pianoforte. La sensazione che si ricava dall’ascolto di questo Andante è di una delicata e incantevole atmosfera poetica.
L’Allegretto finale in 6/8 comincia con un ritmo di siciliana del pianoforte, cui risponde il violino, sostenuto dal violoncello. Si crea quindi una piacevole tessitura di armonie con un ritorno al tema, che viene ripreso dal violino su accompagnamento del pianoforte e con l’intervento del violoncello. Il tema del rondò si allarga e si intensifica e coinvolge tutti e tre gli strumenti in una inarrestabile cascata di invenzioni armoniche, realizzata con brillantezza e vivacità di colori contrastanti. Il Trio K. 564 sembra rispettare le regole di un discorso musicale accessibile a tutti e senza particolari tensioni e tormenti che pure esistono nell’arte mozartiana.
Di Dvorak si conoscono quattro Trii per pianoforte, violino e violoncello, e precisamente l’op. 21, l’op. 26, l’op. 65 e l’op. 90, scritti nel periodo che va dal 1875 al 1891 e oscillanti stilisticamente sotto l’influenza brahmsiana e quella wagneriana e lisztiana, pur con richiami a temi della musica folcloristica boema e slava. Non c’è dubbio che tra queste composizioni, improntate ad un nobile e fluente classicismo formale, la più importante e la più tipica della personalità dell’autore resta l’op. 90, meglio conosciuta sotto il titolo di «Trio Dumky», scritto nel febbraio del 1891 ed eseguito tre mesi dopo a Praga e successivamente in un giro artistico in Boemia e in Moravia dal complesso formato dallo stesso Dvorak, dal violinista Ferdinand Lachner e dal violoncellista Hanus Wilhan, al quale il musicista dedicherà più tardi il ben più celebre Concerto in si minore per violoncello e orchestra. Prima di entrare nel merito della struttura e delle varie parti di questo lavoro ci sembra opportuno ricordare brevemente il significato di Dumky, che è il plurale della parola dumka (un termine indicante pensiero o anche riflessione in italiano), intesa musicalmente come canto popolare di carattere elegiaco oppure come ballata costituita da vari movimenti sia lenti che vivaci, sui quali però predomina un sentimento di struggente malinconia. Quindi Dumky, almeno come l’intende Dvorak, è una successione di canti e di stati d’animo espressi con estrema semplicità di linguaggio, ora nostalgico e triste, ora ritmicamente spigliato, in buona parte psicologicamente somigliante alle Danze slave dello stesso artista.
La composizione, elaborata con ricchezza e varietà di temi, si articola in sei movimenti dalla impostazione armonica semplice, misurata e discorsiva, ma pur intensa nel suo intimo lirismo che affonda le radici nel patrimonio melodico boemo. La prima Dumka si apre con un Lento in mi minore, quasi un recitativo del violoncello, del violino e del pianoforte in un’atmosfera di attesa percorsa da seste ascendenti e discendenti. Nell’Allegro vivace una frase fresca e brillante del violino prende il sopravvento per due volte con un piglio zingaresco, mentre ritornano alcuni frammenti tematici iniziali. La seconda Dumka si snoda dolcemente patetica nel Poco adagio in do diesis minore e sfocia in un fosforescente Vivace, posto in netta contrapposizione al clima sentimentale precedente. Una breve cadenza del violoncello introduce ad una delicatissima cantilena del violino sorretta dal pianoforte, prima della chiusura in tempo allegro. Anche la terza Dumka alterna un Andante in tre quarti ad un Vivace in due quarti, ambedue nella tonalità di la minore; il primo è intriso di sognante poesia romantica e il secondo, invece, è una sequenza di saltellanti cromatismi, coinvolgente in modo piacevole tutti e tre gli strumenti. Il pianoforte riespone di nuovo la melodia fondamentale, su accordi sfumati e leggeri pizzicati del violoncello.
La quarta Dumka è in forma di rondò, il cui tema principale è affidato al violoncello nella tonalità di re minore su un accompagnamento ritmicamente scherzoso del pianoforte, che in un secondo tempo presenta un tema di sapore tzigano. Il discorso a tre si sviluppa tra piacevoli risonanze e gustosi ammiccamenti sonori e si conclude in sordina con i pizzicati del violino. La quinta Dumka è un unico Allegro costruito su brevi episodi ritmici del violoncello e del violino in stile imitativo; alla fine le parti si ricongiungono e ricapitolano il discorso secondo i canoni tradizionali. La sesta e ultima Dumka comincia con un motivo lento in do minore; il pianoforte in un passaggio più mosso prepara il successivo tema Vivace che, dopo una ricomparsa della frase precedente, si scioglie in una travolgente e infiammata esplosione di suoni.
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Ludwig van Beethoven Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in do minore, op. 37 (1770 - 1827) (versione per pianoforte e quintetto d’archi di V. Lachner) Allegro con brio - Largo
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Ludwig van Beethoven
Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra in do minore, op. 37 (1770 – 1827)
(versione per pianoforte e quintetto d’archi di V. Lachner)
Allegro con brio – Largo – Rondò. Allegro
L’episodio è conosciuto. Nel 1804, in un grande ricevimento a Vienna, la nobile padrona di casa aveva assegnato a Beethoven il posto in mezzo a gente di poco riguardo e Beethoven se ne era andato senza sedersi, senza neppure congedarsi. Quella sera era presente il principe Luigi Ferdinando di Prussia (nipote di Federico II), gentiluomo squisito, eccellente pianista, ammiratore e amico di Beethoven, ed egli volle riparare presto l’offesa. Qualche giorno dopo invitò alla sua tavola Beethoven e l’incauta dama mettendo l’uno alla sua destra e l’altra a sinistra. Quando nell’autunno di quell’anno il Concerto op. 37 fu pubblicato da Breitkopf und Hartel (ma era stato composto prima ed era già stato eseguito nel 1803), esso uscì con la dedica «A Son Allesse Royale Monseigneur le Prince Louis Ferdinand de Prusse», quasi una risposta di considerazione e di stima che Beethoven dava al suo amico principe, alla pari.
Beethoven era certo che i rapporti di un artista con gli aristocratici dovevano essere facili, bastava avere «le capacità di imporsi», come diceva lui. Negli enormi rivolgimenti della storia europea recente, Beethoven stava attuando la sua rivoluzione. Al principio dell’Ottocento il vecchio Haydn, vivo ancora e universalmente venerato, non si era “imposto”, il giovane Beethoven sì, quasi da subito, diciamo dal 1795 (l’anno dei tre Trii op. I: Beethoven era a Vienna dal 1792), e così aveva contribuito da protagonista a cambiare la forma di relazioni tra nobili mecenati e artisti. Il fiero sentimento che egli aveva di sé, della posizione sociale dell’artista e della funzione dell’arte fu, certo, una delle spinte potenti alle novità espressive tipiche del suo cosiddetto “secondo stile” (1800-1815), lo stile, cioè, dei capolavori popolari, per i quali da allora Beethoven è Beethoven – un carattere che in sostanza nasceva dalla tenace passione delle ambizioni ideali, dalle aspirazioni umanitarie fino ad allora ignote alla musica, ma anche dalla fedeltà dell’artista ai suoi propositi etici e, dunque, dalla volontà di realizzarli in un’invenzione musicale sempre tesa al massimo dell’energia e del significato, sfidando il pericolo dell’eccesso. Per un’arte di tanta originalità e forza in continuo svolgimento, le divisioni in periodi di stile servono a poco più che un orientamento pratico, eppure può far comodo additarne qualche punto di svolta. E non si tradisce la verità vedendo negli stupendi 6 Quartetti op. 18 (1798-1800) la conclusione del “primo stile” e in questo Concerto op. 37 quasi contemporaneo (1800-1802) l’avvio del “secondo”. Beethoven stesso già all’inizio del 1801 giudicava con distacco qualche suo lavoro precedente, per esempio proprio i primi due Concerti per pianoforte: «Hofmeister pubblica qui uno dei miei primi Concerti [l’op. 19], quindi non una delle mie opere migliori, e Mollo a Lipsia un Concerto posteriore [l’op. 15], però neppure esso è ancora da considerarsi tra le mie opere migliori.» (lettera a Breitkopf und Hartel, 22 aprile 1801).
Per la sua posizione intermedia il Concerto op. 37 non ha sempre la vitalità innovativa e la solida coerenza di altre opere create in quel breve giro di anni (per esempio, le Sonate per pianoforte op. 27 e 28 e soprattutto la Terza Sinfonia), ma basterebbe da solo il secondo movimento ad assicurargli la fama che ha. Dopo diversi e laboriosi ripensamenti (quasi tutti documentati) il Concerto fu concluso nel 1802, ed ebbe la prima esecuzione, molto accidentata ma alla fine accolta bene, il 3 aprile 1803 al Theater an der Wien (solista Beethoven stesso, che leggeva direttamente dal suo confuso manoscritto per la disperazione del direttore del teatro, il cavaliere Ignaz von Seyfried, che voltava le pagine).
Il primo movimento entra subito nella vicenda con il primo tema marziale, volitivo e un po’ enfaticamente solenne nella sua asciuttezza (la somiglianza con l’inizio del Concerto K, 491 di Mozart non gli giova). Inventato con le tre note dell’accordo perfetto di do minore, è uno dei temi sinfonici evidenti e sintetici che l’ascoltatore ripete tra sé dopo un concerto. Ricordiamo che nel sinfonismo un ‘tema’ si forma per lo più con due caratteri, uno melodico e l’altro ritmico, che nella continuità del motivo possono essere coesistenti o distinti. L’elaborazione sinfonica sta appunto nel lavoro di trasformazione e sviluppo dei temi prima di tutto nei loro aspetti melodici e ritmici.
Il primo tema di questo Concerto, e soprattutto il suo rigido ‘epilogo’ ritmico (sol/do, sol/do), passano con intensità diversa da un settore all’altro degli strumenti per essere poi riesposti con un ‘tutti’ dell’orchestra, in un luminoso mi bemolle maggiore. Sorpresa tipicamente beethoveniana, la natura affermativa del tema già accentuata nell’iniziale presentazione in ‘minore’ suona ora molto più decisa. Qui abbiamo la transizione al secondo tema sempre in mi bemolle maggiore (violini primi e clarinetti), cantabile di grande bellezza, che si espande in un breve dialogo di proposte e risposte tra gli archi e i fiati ed entra poi in un agitato sistema di confronti con il primo tema, il cui ‘epilogo’ ritorna insistentemente anche come segmento tematico autonomo. Il pianoforte entra con effetto di protagonista, riaffermando con una certa foga esteriore la tonalità di do minore in tre scale ascendenti scandendo poi vigorosamente il primo tema. Si inizia il dialogo tra il solista e l’orchestra, ben serrato nella sezione dello ‘sviluppo’, con modulazioni ardite nelle quali il secco disegno iniziale (anche contratto negli intervalli, ma non nel ritmo) torna con ossessiva insistenza in funzione di guida della dialettica tra il pianoforte e gli strumenti e tra i temi. Questa cellula tematica scandita in quattro note, e anche condensata in due, perentoria o inquieta, esplicita o celata, caratterizza quasi ogni momento del primo tempo. Addirittura essa compare da sola e in ‘pianissimo’ nei timpani, quasi privata di natura sonora, sotto gli arpeggi del pianoforte dopo che questo ha concluso la sua enorme cadenza. La geniale bizzarria strumentale è l’ultima e più significativa traccia dell’agitazione che ha percorso il primo tempo e che l’eloquente ‘coda’ disperde.
Il Largo è, come ho detto, la pagina preziosa del Concerto. Si direbbe che Beethoven abbia scelto la tonalità di mi maggiore, in tutto estranea al do minore del primo tempo, per isolare sin dal primo accordo il sentimento di questo Largo. La forma generale è quella del Lied in tre sezioni, ma l’alta libertà emotiva non consente alcuna costrizione formale, l’ispirazione è piuttosto quella dell”improvvisazione’. Nel silenzio dell’orchestra il solista inizia la melodia che ha la calma riflessiva di un ‘notturno’. A noi, attenti e stupiti, sembra che il pianista trovi le sue note per la prima volta. Quando l’orchestra risponde (archi con sordina), si espande nella quiete una luce delicata. Nulla turba o confonde la disposizione poetica alla fantasticheria e al sogno. In diversi momenti la musica rinuncia a una fisionomia melodica per espandersi mirabilmente in echi, brividi, sospiri, coni mosse esaltazioni (gli arpeggi del pianoforte), dunque in pura liricità astratta. Perfino la cadenza finale deve avere un suo estatico, sorridente pudore. Mirabile la serena semplicità delle quattro battute finali: percorrendo a eco le tre note dell’accordo di mi maggiore (si, sol diesis, mi) il pianoforte, un flauto, due corni scendono verso il buio e il silenzio. L’ultimo accordo secco (tutti dell’orchestra senza pianoforte) è un congedo antisentimentale, dissipa l’incanto e prepara la transizione al Rondò. Che si inizia molto felicemente con uno scatto agile (corta ascesa di semitono e ampia discesa di settima) del pianoforte, che continua esponendo il tema principale destinato a tornare nelle ripetizioni tipiche del Rondò. A noi suona come la musicale trasfigurazione di un gesto di danza o di una civetteria mondana, consueta negli ‘Allegri’ di Haydn e di Mozart (ma qui non c’è traccia di intonazione popolare così frequente nei due grandi) e poco familiare al Beethoven sinfonico. Tuttavia l’impianto tonale in ‘minore’ celatamente contraddice l’allegra eleganza del disegno, come se la tensione del primo tempo e la notturna malinconia del secondo non si fossero ancora del tutto dileguate – un esempio della complessità nei pensieri e negli affetti di Beethoven nella sua maturità creativa. Ma da un certo momento entra nella musica un garbato umorismo con l’oboe che intona il motivo principale e con il fagotto che lo coglie e lo canticchia, mentre il pianoforte si distrae in arabeschi e poi fa loro da eco, quasi scherzando. Da lì con la progressiva affermazione del modo maggiore si espande una gustosa allegria che dopo l’ultima e breve cadenza del pianoforte quasi esplode nell’imprevedibile capogiro del 6/8 in do maggiore.
Felix Mendelssohn-Bartholdy
Quartetto per archi n. 6 in fa minore, op. 80 (MWV R 37) (1809 – 1847)
Allegro vivace assai – Allegro assai – Adagio – Finale. Allegro molto
Quando Robert Schumann, riferendosi all’ammirato collega Felix Mendelssohn, disse che «il caso l’aveva dotato fin dalla nascita di un giusto nome», non poteva certo prevedere che l’estremo anno di vita di quest’ultimo avrebbe dissipato in un soffio la forte predestinazione che un tale nome possiede. Fino al 1847, infatti, Mendelssohn condusse un’esistenza assai serena e sostanzialmente fortunata, costellata di continui successi e riconoscimenti per i suoi meriti artistici. Tale “quieta grandezza” è rintracciabile anche nelle sue composizioni: Mendelssohn certamente percepiva le inquietudini e gli slanci emotivi messi in risalto dal Romanticismo, ma egli fu in grado di filtrarli attraverso le strutture compositive del classicismo, restituendo, sotto forma di opere d’arte musicali, gli impeti e la passionalità in una veste più contenuta e compassata. Nelle sue composizioni Mendelssohn fu dunque in grado di “pacificare” le tensioni di ascendenza romantica con le forme e gli schemi compositivi di provenienza classicista, creando un organico equilibrio tra istanze assai diverse tra loro.
Non fu così per la composizione del Quartetto n. 6 in fa minore op. 80, scritto in memoria dell’amatissima sorella Fanny, scomparsa prematuramente nel maggio 1847. La perdita della sorella, alla quale Felix era legato da un vincolo spirituale ed emotivo fortissimo, fu un colpo davvero difficile da sostenere per il già provato compositore (assai affaticato da viaggi estenuanti e da continue esibizioni) che morì nel novembre dello stesso anno, lasciando questa estrema pagina musicale a testimonianza del suo lacerante dolore. Un dolore che non viene mai allentato o nascosto in tutta l’opera, che si fa invece esplicita espressione di un impeto creativo del tutto nuovo e insolito per Mendelssohn. Già la tonalità d’impianto evoca un senso di profonda inquietudine, manifestata fin dall’iniziale Allegro vivace assai aperto da tremoli concitati che danno avvio a un primo tema irrequieto e tormentato, a cui ne segue uno più disteso e pacato: le due idee motiviche principali si alternano nello sviluppo, alla ricerca di un equilibrio tra pianto disperato e momentanea accettazione; quest’ultima verrà tuttavia sopraffatta nella coda da una drammatica stretta conclusiva in cui le note più acute del violino primo evocano espressivamente uno straziante grido di rabbia. Il secondo movimento (Allegro assai) è uno Scherzo dal carattere non dissimile: esso è pervaso da un senso di affanno, reso dall’ampio uso della sincope, e di irrequietezza, evocato da un cromatismo che anticipa quello di autori posteriori. Una sorta di basso ostinato caratterizza il Trio mediano, in cui l’atmosfera macabra della pagina si fa addirittura minacciosa, fino alla conclusione che si spegne in un diminuendo sempre più impercettibile. L’Adagio è una malinconica elegia, il cui mesto canto (suddiviso in due temi dal carattere lirico e raccolto) è affidato alternativamente alle voci dei quattro strumenti, fino a un comune e rassegnato sospiro finale. La momentanea concessione alla tenerezza viene spezzata dall’ansiogeno attacco del Finale (Allegro molto), dominato da tremoli, sincopi, improvvisi mutamenti di dinamica, sonorità dissonanti e cromatismi che confermano il profondo tormento dell’anima dell’autore, che esprime in note la sua prostrazione e la sua incapacità a reagire di fronte a un evento del tutto imprevedibile e incomprensibile.
Biglietti online
ACQUISTA ONLINE30Apr(Apr 30)20:30Gonzalo Rubalcaba20:30 via Teatro Ristori,7 - VeronaACQUISTA ONLINE
Ora
(Martedì) 20:30
Location
Teatro Ristori
via Teatro Ristori,7 - Verona
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Un concerto per pianoforte solo con una stella del jazz mondiale
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