Febbraio, 2022

18Feb(Feb 18)20:00RAMIN BAHRAMIJ. S. BACH - Variazioni Goldberg20:00 Genere:Barocca,Stagione 2021-2022ACQUISTA ONLINE

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(Venerdì) 20:00

Dettagli

 

RAMIN BAHRAMI  pianoforte


J. S.
BACH: “Variazioni Goldberg” BWV 988

Aria
Variazione 1 – a 1 manuale
Variazione 2 – a 1 manuale
Variazione 3 – canone all’unisono a 1 manuale
Variazione 4 – a 1 manuale
Variazione 5 – a 1 ovvero 2 manuali
Variazione 6 – canone alla seconda a 1 manuale
Variazione 7 – a 1 ovvero 2 manuali
Variazione 8 – a 2 manuali
Variazione 9 – canone alla terza a 1 manuale
Variazione 10 – fughetta a 1 manuale
Variazione 11 – a 2 manuali
Variazione 12 – canone alla quarta
Variazione 13 – a 2 manuali
Variazione 14 – a 2 manuali
Variazione 15 – canone alla quinta in moto contrario a 1 manuale. Andante (sol minore)
Variazione 16 – ouverture a 1 manuale
Variazione 17 – a 2 manuali
Variazione 18 – canone alla sesta a 1 manuale
Variazione 19 – a 1 manuale
Variazione 20 – a 2 manuali
Variazione 21 – canone alla settima (sol minore)
Variazione 22 – alla breve a 1 manuale
Variazione 23 – a 2 manuali
Variazione 24 – canone all’ottava a 1 manuale
Variazione 25 – a 2 manuali (sol minore)
Variazione 26 – a 2 manuali
Variazione 27 – canone alla nona
Variazione 28 – a 2 manuali
Variazione 29 – a 1 ovvero 2 manuali
Variazione 30 – quodlibet a 1 manuale
Aria

 

 

J. S. BACH: VARIAZIONI GOLDBERG
GUIDA ALL’ASCOLTO DI GLEEN GOULD

Le Variazioni Goldberg, uno dei massimi monumenti della letteratura tastieristica, furono pubblicate nel 1742, quando Bach aveva il titolo di compositore della corte reale di Polonia ed elettorale di Sassonia. Fino ad allora Bach aveva dimostrato poco interesse per questa forma (aveva scritto soltanto un’altra raccolta del genere, una serie di pezzi poco impegnativi “alla maniera italiana”), e il fatto che, nonostante ciò, egli si sia impegnato nella costruzione di un edificio di grandiosità senza precedenti non può che suscitare molta curiosità intorno alle origini dell’opera. Questa curiosità dovrà però rimanere insoddisfatta poiché tutti i dati ancora esistenti ai tempi di Bach sono stati poi occultati dai suoi biografi romantici, affascinati da una leggenda che, malgrado la sua pittoresca inverosimiglianza, è difficile confutare.
A chi non la conoscesse diremo in breve che secondo la tradizione l’opera sarebbe stata commissionata da un tal conte Keyserling, ambasciatore di Russia presso la corte di Sassonia, il quale aveva alle proprie dipendenze come musicista di palazzo uno dei migliori allievi di Bach, Johann Gottlieb Goldberg. Keyserling, che pare soffrisse spesso di insonnia, chiese al maestro di scrivere qualche riposante brano per tastiera che Goldberg potesse suonargli per conciliargli il sonno. Se la cura ebbe buon effetto, è lecito nutrire qualche dubbio sulla qualità dell’interpretazione che il giovane Goldberg doveva dare a questa partitura incisiva e stuzzicante. E anche se non ci facciamo la minima illusione sull’indifferenza da vero professionista con cui Bach considerava le restrizioni imposte alla sua libertà artistica, è difficile credere che i quaranta luigi d’oro offertigli da Keyserling siano stati l’unico motivo del suo interesse per una forma altrimenti sgradita.
Anche da una conoscenza appena superficiale – un primo ascolto o una rapida scorsa al testo musicale – salterà subito all’occhio la sconcertante incongruenza fra la grandiosità delle variazioni e la modestia della sarabanda che ne forma lo spunto. E anzi, si parla tanto spesso dello sgomento suscitato dall’impianto formale della composizione nei non iniziati, smarriti fra i rami lussureggianti dell’albero genealogico dell’aria, che sarà forse utile esaminare più da vicino la radice per determinarne (con la debita delicatezza, naturalmente) le facoltà generative.

Da un’aria per variazioni siamo usi esigere almeno uno dei seguenti due requisiti: un tema con una curva melodica che invochi letteralmente l’abbellimento, oppure una base armonica che, ridotta allo stato fondamentale, appaia gravida di promesse e atta ad uno sfruttamento intensivo. Del primo procedimento si conoscono numerosi esempi dal Rinascimento ai nostri giorni, ma la sua massima fioritura nasce dall’idea rococò del tema con variazioni; del secondo metodo, che, stimolando l’elaborazione lineare, suggerisce una certa analogia con il basso ostinato della passacaglia, sono un memorabile esempio le Trentadue Variazioni in do minore di Beethoven. La stragrande maggioranza dei contributi di rilievo a questa forma non ammette tuttavia una collocazione precisa nell’una o nell’altra di queste due grandi categorie, le quali del resto descrivono piuttosto i poli estremi della premessa operativa dell’idea di variazione, al cui interno è la fusione di tali qualità che costituisce il vero banco di prova per le facoltà inventive del musicista. Un esempio classico, da manuale, sono le Variazioni sull'”Eroica” di Beethoven, in cui le due formule, prima usate separatamente, confluiscono infine in una fuga dove il motivo melodico funge da controsoggetto al tema del basso delle variazioni.

Nelle Variazioni Goldberg viene usata come passacaglia la sarabanda del Quaderno di Anna Magdalena Bach. O meglio, soltanto la linea del basso è riprodotta nelle variazioni, dove viene peraltro elaborata con una flessibilità ritmica sufficiente a soddisfare le contingenze armoniche di strutture contrappuntistiche tanto diverse quanto possono esserlo un canone su ogni grado della scala diatonica, due fughette e perfino un quodlibet (forma ottenuta dalla sovrapposizione di melodie popolari dell’epoca). Le necessarie alterazioni non attenuano in alcun modo l’attrazione gravitazionale esercitata da questo basso magistralmente proporzionato sulla moltitudine di figurazioni melodiche che di volta in volta lo abbelliscono: anzi, nella sua maestosità, esso lega fra di loro le variazioni con la sicurezza sovrana della propria inevitabilità. La sua struttura è in sé talmente salda e completa da apparire poco adatta alla funzione di basso di ciaccona, soprattutto per la ripetitività del suo motivo cadenzante. Esso non evoca minimamente quell’anelito a un completamento che è implicito nella prima esposizione, tradizionalmente concisa, di un motivo di ciaccona; anzi, si estende spensieratamente su un territorio armonico così ampio che, ad eccezione delle tre variazioni in minore (la quindicesima, la ventunesima e la venticinquesima), in cui viene subordinato alle esigenze cromatiche di quella tonalità, i suoi rampolli non hanno alcuna necessità di esplorarne, di realizzarne e accentuarne gli elementi costruttivi.

Data la costanza della base armonica, sarebbe logico pensare che lo scopo principale delle variazioni fosse quello di illuminare le sfaccettature tematiche nell’ambito melodico del tema dell’aria. Ma ciò non avviene, perché la sostanza tematica, un soprano docile ma ricco di abbellimenti, possiede un’omogeneità intrinseca che non lascia nulla in eredità alla sua discendenza e che, per quanto riguarda la ripresentazione tematica, viene completamente dimenticata nel corso delle trenta variazioni. Si tratta insomma di una piccola aria curiosamente autonoma, che si direbbe cerchi di evitare qualsiasi atteggiamento genitoriale, di ostentare una placida indifferenza per la sua progenie, di non manifestare alcuna curiosità per la propria ragion d’essere. La prova migliore di questa noncuranza è il precipitoso esplodere della prima variazione; che interrompe di colpo la calma precedente. Una simile aggressività non è certo il comportamento che ci si aspetta dalle variazioni introduttive, le quali manifestano di solito una fanciullesca docilità verso il tema che le precede imitandone l’andamento e conducendosi con la modesta consapevolezza della propria funzione attuale ma con un deciso ottimismo quanto alle prospettive future. Nella seconda variazione troviamo il primo esempio della confluenza di queste qualità parallele: ecco lo strano miscuglio di mite compostezza e piglio autorevole che contraddistingue l’io virile delle Variazioni Goldberg.
Forse, con l’attribuire alla composizione musicale caratteristiche che rispecchiano soltanto l’approccio analitico dell’esecutore, mi sono involontariamente avventurato in un gioco pericoloso. Si tratta di una pratica cui è particolarmente facile indulgere nella musica di Bach, che non contiene indicazioni né di tempo né dinamiche; dovrò quindi evitare con cura che l’entusiasmo di una convinzione interpretativa si presenti come l’inalterabile assolutezza della volontà dell’autore. Inoltre, come ha saggiamente osservato Bernard Shaw, fra i compiti del critico non rientra l’analisi grammaticale.

Con la terza variazione hanno inizio i canoni, che da ora in poi ricorreranno una volta ogni tre brani dell’opera. Ralph Kirkpatrick ha efficacemente raffigurato le variazioni con una similitudine architettonica: «Delimitate alle estremità da due pilastri, uno dei quali è formato dall’aria e dalle prime due variazioni, l’altro dalle due penultime variazioni e dal quodlibet, le variazioni sono raggruppate come elementi di un complesso colonnato; ogni gruppo è composto di un canone e di un elaborato arabesco a due manuali, racchiudenti a loro volta un’altra variazione a carattere indipendente».
Nei canoni l’imitazione letterale compare soltanto nelle due voci superiori, mentre la parte di accompagnamento, presente ovunque tranne che nell’ultimo canone alla nona, ha quasi sempre piena libertà di trasformare il tema del basso in un complemento opportunamente acquiescente.
A volte ciò si traduce in un dualismo voluto di preminenza tematica: il caso estremo è quello della diciottesima variazione, dove le voci del canone si trovano a dover sostenere la parte della passacaglia, capricciosamente abbandonata dal basso.
Un contrappunto meno anomalo si nota nella risoluzione dei due canoni in sol minore (il quindicesimo e il ventunesimo), in cui la terza voce entra nel complesso tematico del canone, riproponendo il suo segmento in una versione ricca di figurazioni e dando luogo a un dialogo di bellezza incomparabile.
Ma questa ricercatezza contrappuntistica non s’incontra soltanto nelle variazioni canoniche: in parecchie variazioni “a carattere indipendente” minuscole cellule tematiche vengono sviluppate sino a creare complesse trame lineari. Esempi tipici sono la conclusione fugale dell’ouverture alla francese (sedicesima), la variazione alla breve (ventiduesima) e la quarta variazione, in cui sotto una brusca rusticità si cela un elegante labirinto di stretti. In realtà questo oculato sfruttamento di mezzi volutamente limitati supplisce in Bach all’identificazione tematica fra le variazioni. Poiché la melodia dell’aria, come già detto, si sottrae a qualunque rapporto col resto dell’opera, ogni singola variazione consuma voracemente il potenziale della propria cellula tematica, presentando così un aspetto assolutamente soggettivo dell’idea di variazione. Quest’integrazione fa sì che, con la dubbia eccezione della ventottesima e della ventinovesima variazione, non vi sia nemmeno un esempio di collaborazione o di estensione tematica fra due variazioni consecutive.
Nel tessuto a due voci degli “arabeschi” l’importanza data all’esibizione virtuosistica limita l’impegno contrappuntistico a pratiche non troppo elaborate, come l’inversione della risposta conseguente.

La terza variazione in sol minore (venticinquesima ndr) occupa una posizione chiave. Dopo un generoso e caleidoscopico tableau formato da ventiquattro quadretti che illustrano, con sfumature meticolosamente calibrate, l’indomabile elasticità di quello che è stato definito «l’io delle Goldberg», ci viene concesso di raccogliere e cristallizzare tutte quelle impressioni di profondità, delicatezza e virtuosismo, indugiando al tempo stesso pensosi nella languida atmosfera di una pagina di umore quasi chopiniano. L’apparizione di questa stanca e malinconica cantilena è un capolavoro di intuito psicologico.
Con rinnovato vigore irrompono, a questo punto, le variazioni dalla ventiseiesima alla ventinovesima, seguite da quell’esuberante dimostrazione di deutsche Freundlichkeit [gentilezza tedesca] che è il quodlibet. Quindi, quasi fosse incapace di trattenere un sorriso compiaciuto davanti ai progressi della sua progenie, ecco la sarabanda originale che, da bravo genitore, torna per bearsi nella luce riflessa di un’aria col da capo.
Una siffatta conclusione del grande ciclo non ha nulla di casuale, e il ritorno dell’aria non è un semplice gesto di benevolo commiato, ma adombra un’idea di perpetuità che rivela la natura essenzialmente incorporea delle Variazioni Goldberg e simboleggia il loro rifiuto di quell’impulso generativo.
Ed è proprio il riconoscere la loro sdegnosa indifferenza per il rapporto organico fra la parte e il tutto a farci sospettare per la prima volta la vera natura del particolarissimo vincolo che le unisce.

La nostra analisi tecnica ci ha rivelato che non c’è compatibilità fra l’aria e la sua progenie, e che il basso vitale, per la sua stessa perfezione lineare e le sue implicazioni armoniche, blocca la propria crescita e impedisce il consueto sviluppo in forma di passacaglia verso un punto culminante. Sempre per via analitica abbiamo osservato che il contenuto tematico dell’aria rivela inclinazioni altrettanto esclusive, che in ogni variazione l’elaborazione della melodia obbedisce a regole proprie e che non vi sono quindi piattaforme di variazioni successive basate su princìpi strutturali simili, quali sono quelli che danno una coerenza architettonica alle variazioni di Beethoven e di Brahms. E tuttavia, senza ricorrere all’analisi, abbiamo sentito la presenza, alla base di tutto, di un’intelligenza coordinatrice, che abbiamo definita «io». Siamo quindi costretti a rivedere i nostri criteri di giudizio, tutt’altro che idonei a sindacare su quell’unione di musica e metafisica che è il campo della trascendenza tecnica.

Non ritengo arbitrario soffermarmi su considerazioni che vanno oltre il fatto musicale, anche se ci troviamo davanti a quella che è forse la più splendida elaborazione mai realizzata su un tema di basso: penso infatti che la fondamentale ambizione di quest’opera per ciò che riguarda la variazione non vada cercata in una costruzione organica ma in una comunità di sentimento. In essa il tema non è terminale ma radiale, le variazioni percorrono non una retta ma una circonferenza, un’orbita di cui la passacaglia ricorrente costituisce il punto focale.

È una musica, in breve, che non conosce né inizio né fine, una musica senza un vero punto culminante e senza una vera risoluzione: una musica che è come gli amanti di Baudelaire, «mollement balancés sur l’aile / du tourbillon intelligent». Essa ha quindi un’unità che le viene dalla percezione intuitiva, un’unità che nasce dal mestiere e dalla rigorosità, che è ammorbidita dalla sicurezza di una maestria consumata e che qui si rivela a noi, come avviene tanto raramente in arte, nella visione di un disegno inconscio che esulta su una vetta di potenza creatrice.

Gleen Gould

 

 

RAMIN BAHRAMI

“Ramin Bahrami scompone la musica di Bach e la ricompone in modi che risentono di un modello, Glenn Gould, senza veramente assomigliare al modello. Io gli ho insegnato a sopportare  il  morso,  ma  non l’ho domato; e spero che continui ad essere com’è”
(Piero Rattalino)

Ramin Bahrami è considerato uno dei più interessanti interpreti di Bach al pianoforte. Dopo l’esecuzione dei Concerti di Johann Sebastian Bach a Lipsia nel 2009 con la Gewandhausorchester diretta da Riccardo Chailly, la critica tedesca lo considererà: “un mago del suono, un poeta della tastiera… artista straordinario che ha il coraggio di affrontare Bach su una via veramente personale”.
(Leipziger volkszeitung).

La ricerca interpretativa del pianista iraniano è rivolta alla monumentale produzione tastieristica di Johann Sebastian Bach, che Bahrami affronta con il rispetto e la sensibilità cosmopolita della quale è intrisa la sua cultura e la sua formazione. Le influenze tedesche, russe, turche e naturalmente persiane che hanno caratterizzato la sua infanzia, gli permettono di accostarsi alla musica di Bach esaltandone il senso di universalità che la caratterizza.
Bahrami si è esibito in importanti festival pianistici tra cui “La Roque d’Anthéron”, Festival di Uzés, il Festival “Piano aux Jacobins”  di Toulose, il Tallin Baroque Music Festival in Estonia e il Beijing Piano Festival in Cina, Festival di Brescia e Bergamo, Ravello Festival ed in prestigiose sedi italiane come il Teatro alla Scala di Milano, la Fenice di Venezia, l’Accademia di Santa Cecilia a Roma, etc..
Nato a Teheran si diploma con Piero Rattalino al Conservatorio “G. Verdi” di Milano, approfondisce gli studi all’Accademia Pianistica di Imola e con Wolfgang Bloser alla Hochschule für Musik di Stoccarda. Si perfeziona con Alexis Weissenberg, Charles Rosen, András Schiff, Robert Levin e Rosalyn Tureck.
Ramin Bahrami incide in esclusiva per Decca-Universal. I suoi CD sono dei best seller e riscuotono sempre molto successo di pubblico e di critica tanto da indurre il Corriere della Sera a dedicargli una collana apposita per 13 settimane consecutive. È entrato cinque volte nella classifica top 100 dei dischi più venduti pop di Gfk.
Le sue registrazioni vengono regolarmente trasmesse dalle maggiori emittenti internazionali.
Nel 2016 ha avuto il privilegio di inaugurare la stagione di musica da camera di Santa Cecilia a Roma e al Beethoven Festival di Varsavia in collaborazione con il flautista Massimo Mercelli, con cui ha registrato le sonate per flauto e piano per Decca.
Reduce da un concerto trionfale alla Sala Grande dell’Accademia Liszt a Budapest e alla Tonhalle di Zurigo, recentemente si è esibito con Yuri Bashmet e I Solisti di Mosca e ha avuto il privilegio di suonare in una gala di beneficenza con Sabine Meyer.
È stato insignito del premio “Mozart Box” per l’appassionata e coinvolgente opera di divulgazione della musica, gli è stato conferito il Premio “Città di Piacenza–Giuseppe Verdi” dedicato ai grandi protagonisti della scena musicale, riconoscimento assegnato prima di lui a Riccardo Muti, José Cura, Leo Nucci e Pier Luigi Pizzi.
Ha inoltre ricevuto la cittadinanza onoraria dalle città di Catania e Palermo e il sigillo dall’Università di Sassari.
Fra i suoi prossimi impegni una tournée in Estremo Oriente (fra cui Tokyo, Osaka, Pechino e Shangai) col programma “Bach is in the air” in duo con Danilo Rea.
Ramin Bahrami ha scritto due libri per Mondadori, un terzo edito da Bompiani dal titolo “Nonno Bach”, e altri tre con La Nave di Teseo.

 

 

 


foto © Francesco Giusti

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